Non era ancor molto lontan da l’orto, / ch’el cominciò a far sentir la terra / de la sua gran virtute alcun conforto;
ché per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse, a cui, come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital corte / et coram patre le si fece unito; / poscia di dì in dì l’amò più forte.
Questa, privata del primo marito, /millecent’anni e più dispetta e scura / fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir che la trovò sicura / con Amiclàte, al suon de la sua voce, / colui ch’a tutto ‘l mondo fé paura;
né valse esser costante né feroce, / sì che, dove Maria rimase giuso, / ella con Cristo pianse in su la croce.
Ma perch’io non proceda troppo chiuso, / Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso[1].
Così recitano i versi, dal 55 al 75, del Canto XI del Paradiso che Dante dedica a San Francesco e a Madonna Povertà.
All’inizio del Medioevo l’esigenza evangelica della povertà era stata oggetto di attenzione da parte di S. Benedetto, che nella Regola dell’Ordine precludeva ogni forma di proprietà di tipo personale, consentendo d’altro canto una proprietà di tipo comune. Questo tipo di povertà, esclusivamente individuale, aveva consentito l’accumularsi di ricchezze proprio in capo alle Abbazie. Ricchezze che non sempre venivano utilizzate in modo esteso al prossimo e che per questo avevano prestato il fianco a critiche anche aspre e talvolta violente. Tale situazione, denunciata come una contraddizione dei principi evangelici, aveva favorito il proliferare di movimenti pauperistici anche radicali, al punto che la povertà era diventata la pietra di paragone fra eletto e reprobo. A tale deformazione della Parola evangelica riuscirà a reagire in modo compiuto il movimento francescano, grazie proprio all’equilibrio del suo fondatore[2]. Con Francesco la povertà acquisisce uno statuto nuovo: non è più sinonimo di dolore, d’incertezza, d’inadeguatezza, poichè essa nasce non solo dalla volontà di aderire alla lettera di Gesù, ma anche e ancora di più dal senso di gioiosa ricchezza interiore che rifiuta ogni avidità e si manifesta nel dono verso il prossimo. La gioia è l’espressione dell’interiore possesso di Dio e diventa l’antitesi della predicazione ribelle dell’eresia: si è più felici quanto si è più ricchi di Dio. Anche all’interno dell’Ordine francescano il tentativo di precisare tale povertà, successivamente alla morte del fondatore, ha dato luogo a dispute che hanno coinvolto anche l’Università parigina, ma ha anche spinto un ignoto[3] a descriverla, attraverso la concezione cavalleresca tipica dell’epoca, in un libretto intitolato Santa Unione di San Francesco con Madonna Povertà[4].
[1] Paradiso, XI, 55-75.
[2] Cfr. R. Manselli, S. Francesco e Madonna Povertà, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1990.
[3] L’attribuzione del libretto La Sacra Unione di S. Francesco con Madonna Povertà è molto complessa e dibattuta. Come scrive Manselli, però, è più certa la definizione del periodo di composizione che si fa risalire al tempo del primo movimento francescano, precedente ai dissidi interni all’Ordine che si verificarono successivamente con la scissione tra Spirituali e Conventuali, di cui Dante stesso tiene traccia nella Divina Commedia.
[4] Sacrum Commercium, ovvero della Sacra Unione di Francesco con Madonna Povertà, da alcuni tradotto con Le Mistiche Nozze di Francesco con Madonna Povertà è degno di essere definito come “espressione viva e felice di un movimento che contribuì a salvare la Chiesa e non solo, ma aprì tutta una via nuova alla religiosità medievale”. Cfr. R. Manselli, Francesco d’Assisi e Madonna Povertà, cit., pp. 30-31 e p. 78. Sul tema cfr. anche U. Cosmo, Con Madonna Povertà. Studi francescani, Laterza, Bari 1940.